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sabato, marzo 13, 2010

La luna in un fiasco



Mi svegliai molto presto quella mattina, mezzo dentro e mezzo fuori dalla tenda.
La mia pancia chiedeva con urgenza di essere svuotata.
Mi ci volle qualche momento per capire dov'ero e trovare l'uscita. Il mio corpo giaceva proprio sulla soglia, il tronco all'interno e le gambe distese all'esterno, sui sassi di quell'insenatura.
Ero proprio crollato la notte prima!
Che ore saranno state?
Che ore erano adesso?
Non avevo dormito più di tre ore e mezza.
Presi il rotolo della carta igienica e salii sul versante del promontorio, dove gli alberi erano più fitti.

Dopo che fui tornato dal bosco, attesi che i miei amici si svegliassero.
Non feci un'abbondante colazione.

Quel giorno, per alcuni di noi, era l'ultimo di una vacanza durata un po' più di una settimana. Io e gli altri saremmo partiti l'indomani; treno fino a Genova e poi autostop per Milano.

Fu una vacanza bellissima.
Le Cinque Terre a piedi. La via dell'amore, qualche giorno trascorso in un'insenatura insieme a dei nudisti ed a un gregge di capre, che scacciavamo con le forchette; una notte passata in una casetta nel bosco, vicino a Monterosso, che battezzammo la casa del doganiere, ricordi di Montale, mentre fuori infuriava una tempesta.
Eravamo un gruppo di compagni di scuola e amici d'infanzia, ragazzi e ragazze, un po' più di una decina. Zaino in spalla, qualche tenda, dove trovavamo spazio ci accampavamo. Un paio di giorni in un campeggio organizzato.

Di quella mattina conservo solo due ricordi. Il risveglio e quello di un ragazzo seduto su una panchina della stazione di Levanto in uno stato quasi comatoso.
Io.

Quando arrivò il treno cominciarono i saluti. Io ero sempre rannicchiato su quella panchina. Tra amici si può essere informali senza essere offensivi, tanto più quando questa informalità non è cercata ma conseguenza di uno stato alterato.
L'ultima che si avvicinò a me fu lei.
E questo me lo ricordo bene.
Si chinò e senza dire nulla posò le sue labbra sulle mie.
Fu questo che mi svegliò. Era insolito come saluto, non erano i soliti baci sulla guancia che mi aspettavo.
Poi mi sorrise e disse: "Dobbiamo avere altre storie io e te".
Il treno partì.

La sera del giorno prima, l'ultima sera che saremmo stati tutti insieme, decidemmo di ubriacarci.
Comprammo un po' di fiaschi di un vino bianco locale e, in una zona un po' periferica del lungomare di Levanto, cominciammo a bere.
Un sorso, poi un altro e la realtà cominciò ad apparire diversa.
Tra di noi c'era un amico che non beve vino, non un astemio, non gli piace il vino e quella sera preferì non comprare nulla di diverso e rimanere sobrio. Cose che appartengono ai miei ricordi, confusi come un sogno, mi furono confermate da lui.
Qualcuno che canta a squarciagola Roxanne dei Police.
Uno di noi che fa lo slalom tra i lampioni del lungomare finché non ne centra uno.
Io che insulto gli occupanti delle macchine che si fermano a guardare quella compagnia di ubriachi e l'amico che mostra il coltello che tiene alla cintola per scoraggiare eventuali malintenzionati; c'erano le ragazze, era quello che li attraeva.
Mi confessò anni dopo che quella sera per lui fu un incubo.

Il vino finì ed il buon pastore ci radunò e, correndo avanti e indietro affinché il gregge di avvinazzati non si disperdesse, ci portò fino all'accampamento.
Avevamo piantato le tende sopra i sassi di una insenatura isolata. Per raggiungerla si dovevano percorrere due gallerie della vecchia ferrovia abbandonata, buie di giorno, figuriamoci la notte. Le percorsi, quella notte, abbracciato a due ragazze, lei e un'altra, facendo discorsi profondissimi. Così dice il mio amico. Qualcosa mi rimane in memoria di quella passeggiata, ma nulla di quello che dissi.
Arrivati all'insenatura bisognava scendere da una scarpata per arrivare alle tende, che si trovavano abbastanza vicino alla costa.
Fu un'impresa non facile per questo mio amico trasportarci, non so come, giù dal dirupo.

Mi rivedo seduto sui sassi.
Abbracciati, io e lei.
C'era la luna che si rifletteva nel mare.
Il suono della risacca.
La brezza della notte.

Un po' prima del crollo lei mi disse:
"Stai attento a non vomitarmi addosso".
Poi il buio.

Tutto iniziò lì e lì tutto finì.
Avevo 17 anni.

1 commento:

Nicole ha detto...

Forse alcune cose rimangono indelebili perché non hanno avuto il tempo di rovinarsi...o no?
Forse mi illudo io, ogni volta che mi giro indietro e ricordo qualcosa di simile al tuo racconto. o forse è perché eravamo giovanissimi e spensierati...Non lo so.
Di sicuro c'è che il tuo racconto è molto bello.