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sabato, agosto 17, 2019

Gimondi




La foto mostra una borraccia da ciclista che tengo in una libreria vicino alla scrivania dove sto scrivendo, l’unico mobile libreria chiuso da ante di vetro che c’è nel seminterrato che io chiamo crypta, dove conservo gli oggetti – i libri sono comunque oggetti – che risalgono a tanto tempo fa e che mi sono più cari, per quanto non abbiano più una immediata utilità.
La borraccia è rovinata. L’ho usata per molti anni e ancor di più chilometri con la bici da corsa che avevo.
Risale alla metà degli anni ‘70, un anno in cui il giro d’Italia terminava a Milano. Anche se quest’ultima informazione è abbastanza inutile – quasi tutti i giri terminano a Milano – quell’anno due miei cugini, più anziani di me, che abitano in questa città andarono a vedere l’ultima tappa.
Qualche settimana dopo c’incontrammo e, tenendo uno di loro questa borraccia in mano, così mi dissero: “All’ultimo giro eravamo all’esterno di una curva e vediamo nel gruppo Gimondi che butta via la borraccia. È rotolata proprio dove eravamo noi, ai nostri piedi. Non abbiamo dovuto fare altro che raccoglierla. C’era dentro ancora del the”.
Annusai e ne sentii l’aroma.
“Tieni, è la borraccia di Gimondi, tienila tu”.
Il ragazzino che ero fu felice.

Non posso dimostrare, né ho alcuna intenzione di farlo, che questa sia veramente la borraccia di Gimondi.
Ma, come per le reliquie – e posso ben dirlo io che vivo in una parrocchia dedicata alle ossa di 2 uomini di Neanderthal spacciati per santi – non contano tanto gli oggetti in sè quanto le storie che raccontano.
E qui la storia è che io ho pedalato per anni insieme alla borraccia di Gimondi.

Addio

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