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giovedì, luglio 29, 2010

night and bike

Andare in bicicletta è l'unica attività che mi piace fare di giorno.
 
Sono una creatura notturna, in quasi tutto preferisco la notte. Non è una scelta, non andrei mai a dormire e, il mattino, non mi alzerei mai. I miei risvegli sono proverbiali, per una buona mezzora sono in stato quasi catatonico, incapace d'intendere e di volere.
Oggi era una bella giornata di sole, con una leggera brezza e un'umidità accettabile. Il sudore evapora subito e rimane la pelle asciutta, la giornata ideale per un bel giro in bici da corsa.

Vestito con un paio di calzoncini da ciclista blu tendente viola, la maglietta dei Led Zeppelin, che ormai deve avere 25 anni e da nera che era è diventata di un grigio tendente al bianco sporco, ma con l'immagine dell'angelo ad ali spiegate ancora in buone condizioni, le scarpe con gli attacchi per i pedali e, allacciato in vita, il marsupio con lo stretto indispensabile, dopo pranzo sono partito per un giro.

Di solito non programmo le uscite, vedo come sto e, se non mi sento troppo bene, mi tengo lontano da dove ci sono salitelle, preferendo la pianura dove, in questo periodo dell'anno, mi piace perdermi tra i campi di mais.
Oggi mi sentivo abbastanza bene, avevo anche voglia di sfogarmi, e ho puntato verso la bergamasca.

Attraversando l'Adda si passa un confine, uno dei più chiari e netti al mondo. Quello tra i dialetti lombardo-occidentali e lombardo-orientali. Oggi ho attraversato questa frontiera a Trezzo e mi sono diretto verso Sotto il Monte, lì ci sono salitelle interessanti, poco traffico ed è facile trovare l'acqua.
Pedalando e, contemporaneamente, guardando il paesaggio, ho scorto la sagoma di Bergamo, i tetti dei monumenti della città alta.
Stavo bene, così mi sono diretto verso la città.

Avvicinandomi a Bergamo il traffico aumentava, ma oggi era una giornata di quelle che mi va bene tutto, anche i semafori rossi diventavano occasione di divertimento con l'attesa in surplace. Gusto mio, non che debba piacere a tutti.

Mi piace vedere le città partendo dalla periferia, osservare il cambiamento dello stile degli edifici, dai nuovissimi, ancora in costruzione, si passa a quelli più vecchi, poi iniziano, avvicinandosi al centro, quelli monumentali con le facciate patinate dal tempo e dal fumo, se si passa per dei viali famosi ma anche per vie mai percorse prima e quasi deserte.
Ad un certo punto mi sono trovato in una zona pedonale, negozi e turisti che guardavano le vetrine dei negozi ospitati in quei palazzi veramente belli, e lì mi sono trasformato in turista. Messo il rapporto più leggero, lentamente mi sono messo ad ammirare quella gente e quelle vie. Pedalicchiando e guardandomi in giro mi sono trovato sul sentierone di Bergamo, a quel punto il richiamo di città alta è forte, sia per fare il percorso delle mura, sia per rivedere quel posto, i suoi monumenti, le viuzze e le piazze, bellissime, che non vedevo da tanto tempo.

Passando davanti alla stazione della funicolare e attraversata porta San Agostino, ed aver ammirato quelle ville che ci sono su quella strada, alcune belle altre pretenziose con l'ingresso costruito quasi a modo di tempio greco, ho cominciato il percorso delle mura venete e, man mano che salivo, alla mia sinistra il panorama della pianura si apriva ai miei occhi. Solo una leggera foschia che confondeva i contorni impediva allo sguardo di spingersi ai suoi limiti possibili, ma conferiva quel fascino misterioso ai tanti paesi, ed ai loro campanili, che si vedevano da lì.

Arrivato in cittadella, dove comincia l'acciottolato fatto di sassi abbastanza grossi, che a volte pregiudicano l'equilibrio, specialmente se percorso con i pneumatici stretti della bici da corsa, ho cominciato a perdermi tre le vie e le piazzette di città alta. Un saliscendi divertente su quel pericoloso selciato, sempre piano e gustando quello che vedevo intorno a me. Anche qualche scalinata, in discesa, quelle con i salti non alti, ma che mettono a prova la sensibilità con i freni e l'equilibrio; Il divertimento vuole la sua parte, anche a costo di qualche caduta.
Mi sono trovato in piazza vecchia, il palazzo della ragione, con il leone di san Marco, alla mia sinistra, a destra, illuminata dal sole, abbagliante, la facciata del palazzo seicentesco in marmo bianco. Un giro attorno al duomo e altre viette, i turisti fotografano, passeggiano, ed eccomi davanti all'entrata del conservatorio dedicato a Donizzetti. Nella strada deserta si sente un organo che suona in lontananza, senza scendere dalla bici mi appoggio al muro e mi fermo ad ascoltare.

...

E ora che è notte, e penso meglio, posso dire che oggi ho vissuto, che sono riuscito a sopportare la mia compagnia.
Ho voluto la bicicletta e ho pedalato, come potevo, come volevo. Ho visto e respirato, ascoltato e annusato.
Era tanto tempo che non succedeva.
Certi dì, anche se non sono notti, sono bellissimi.


mercoledì, luglio 21, 2010

Calcetto

Ho giocato per qualche anno a calcetto con degli amici e dei semplici conoscenti.
Non amo il calcio, da bambino ero quello che proponevo sempre qualche altro sport, un anno mi inventai le Olimpiadi. Un sasso rotondo diventava un peso, uno schiacciato il disco e un manico di scopa il giavellotto. Per le corse non c'era da inventarsi nulla, bastava correre e la distanza tra due alberi, o due lampioni, diventava i cento metri e il giro del palazzo la gara di fondo. Mi limitai all'atletica se ben ricordo.
Ma il più delle volte la scelta era tra giocare la partitella, e a quel tempo eravamo veramente in tanti bambini, o non giocare del tutto. Io preferivo giocare, anche se non era il mio gioco preferito.
Così, crescendo, mi ritrovai a non essere del tutto impedito come giocatore di pallone.
Incapace di palleggiare, compensavo questa mia mancanza con una certa velocità di movimento e una buona precisione di tiro. Così, tra i venti e i trent'anni, piuttosto che non fare nulla d'inverno, giocai in una squadretta di calcetto una volta alla settimana; una maniera come un'altra per correre e sfogarsi.
E di sfogarmi ne avevo davvero bisogno. A quel tempo avevo già chiuso tutte le porte o quasi, e un'uscita settimanale mi permetteva di ricordare che appartenevo ad una specie sociale.

Giocare...
Sì, una volta che decido di giocare, gioco. Se proprio non mi piace quel gioco, o anche la maniera in cui quel gioco viene giocato, smetto, me ne vado

Nel calcio e in tutti gli sport di squadra, escluse le partite estemporanee come quelle che si possono vedere sulle spiagge, il gioco non è completamente contenuto dal campo. Inizia prima, si conclude dopo e avviene in luoghi diversi: nelle case tra parte di partecipanti, nei bar per quelli che lì si trovano per discutere le tattiche, insomma, in ogni luogo in cui almeno due giocatori si trovano per parlare della prossima partita e "analizzare" la precedente. Questa parte del gioco risponde all'altisonante definizione di "dinamiche di spogliatoio", e ha la funzione di stabilire la gerarchia del gruppo, della squadra.

Durante i primi mesi, mentre mi cambiavo negli spogliatoi, quando rimanevo io e un altro paio di persone, regnava silenzio. Io mi attardavo sempre, non mi piaceva cincischiare per il campo in attesa dell'inizio della partita.

Durante una partitella uno dei migliori giocatori, nonch'è quasi un amico o almeno conoscente di lunga data, uno di quei tipi atletici e bravi con i piedi, si mise a giocare da solo. Sì, a volte, neanche tanto di rado, quelli bravi con i piedi si dimenticano che è uno sport di squadra e si mettono a fare la ruota come i pavoni, quelli bravissimi riescono anche a fare cose che chiamano un applauso convinto, ma quella sera non era questo il caso.
Il tizio diede prova della sua bravura sprecata per non ottenere nessun vantaggio. Noi, gli altri giocatori di quella squadra, ci fermammo a guardare le sue evoluzioni, inutili, in attesa che si decidesse a passare la palla.
Io mi stancai presto, cominciai a fissarlo con le braccia conserte, finché lui non si lamentò che nessuno si metteva nel posto giusto per passargli la palla.
Era già da un po' di tempo che aspettavo la palla, lui continuava le sue inutili evoluzioni, e mi saltò subito la mosca al naso. Comincia ad urlargli le mie ragioni, condite da qualche "va a cagare", non sarà troppo fine ma, nella retorica calcistica, è uno dei condimenti più usati. Uno dei tanti episodi che avvengono tra compagni di squadra, niente di più, per me. Stranamente, nei mesi precedenti, in episodi simili, non avevo visto nessuno comportarsi come stavo facendo io.

Da quella volta, negli spogliatoi, il silenzio sparì, quando rimanevo in compagnia di quelle poche persone, e fu sostituito da pettogolezzi sulla bravura di questo o dalla broccagine di quello. E quando c'era da decidere qualcosa cominciarono a chiedere il mio parere.
Fu lampante che, da quella scenata, diventai parte del gruppo.
Qualcuno mi disse che erano anni che voleva mandare a cagare quel tipo, ma non l'aveva mai fatto.
Cazzo!
Sono un antagonista e non lo sapevo.

venerdì, luglio 16, 2010

pensa due volte



Ma poi fa qualcosa.
Se agire d'impulso può portare a spiacevoli conseguenze, il non fare nulla, dopo che si è attentamente valutata una data situazione, porta spiacevoli conseguenze solo per chi lascia correre.
Certe volte il fare qualcosa è non fare più nulla.
Sparire.

Criptico eh...:-)

giovedì, luglio 15, 2010

Minchia, come sto bene!!!

Nei primi anni del liceo ebbi una breve passione per l'etologia, poi mi accorsi che preferivo le cose, che preferivo conoscere come funzionavano le cose, le leggi di natura, rispetto ai comportamenti animali, umanità compresa.
Lessi, di sicuro, L'Anello Di Re Salomone, imprinting e oche varie, ma quello che mi ricordo meglio é una parte di E L'Uomo Inventò Il Cane.
Diceva quel brano:
"Se vuoi rendere felice il tuo cane, prendi il bastone e picchialo. Poi smetti".
Non so perchè mi è venuta alla mente proprio ora, ma so che io non sono un cane e, anche, trovo odioso questo comportamento tra i miei simili.
Non parlo del gioco ma della vita e delle sue cose ed emozioni di tutti i giorni.

Qualche decennio dopo, forse esagero, ma più di dieci anni erano passati, mi diveniva sempre più chiaro che con i miei simili, la maggior parte di loro almeno, condividevo ben pochi aspetti dell'intendere la vita.
Cominciai a nascondermi sempre di più ma, per nascondersi in una folla bisogna diventare folla.
Non riuscivo a diluirmi in quella folla e, per quanto desiderassi l'invisibilità, avevo l'impressione di essere verde.
Desideravo essere invisibile, ma odiavo e odio l'esserlo, dunque dovevo essere colorato. Chissà perchè verde, forse un ricordo di qualche filmaccio sui marziani.

E già!
Certe volte la tuta mimetica si strappa, la maschera si sgualcisce e lascia intravedere quello che c'è sotto.
Sotto la mia c'è un marzianino di un verde stinto che diventa quasi trasparente, si avvia verso l'odiatà invisibilità.
Sotto la vostra cosa c'è?

Apro il portafoglio prima di andare a dormire, guardo il suo contenuto.
Foto una delle frecce tricolori, ho passato un periodo che ero patito d'areonautica.
Mazzetto di biglietti da visita di amici, negozi, di un bed and breakfast vicino a Salisbury e di un hotel di Oudenaarde, inutili ricordi.
Biglietto uno per la salita sulla torre di Santo Stefano, Vienna, scellini 20. L'ultimo viaggio degno di questo nome che ho fatto, il secolo scorso ormai.
Libricino degli indovinelli, proprio un libricino per stare in una tasca del portafoglio.
Foglietto plasticato uno, con scritta a penna la litania della paura di Dune, in italiano e We born to fight, not to run.
Patente, carta d'identità, tessere, foglietti e scontrini stinti vari.
Penny uno, centesimo americano uno, centesimo canadese uno, dracme 10.
Mai stato fuori dall'Europa. Le 10 dracme le ho tenute perchè sono dedicate a Democrito.
Codice fiscale, tessera del Politecnico di Milano, di cui, almeno formalmente, sono ancora studente, carte di supermercati due e tessera del bancomat.
Euro 135 in pezzi da 20, 10  e 5.
Perchè ho scritto questo?
Per raccontare un po' di me?
Per definirmi?
No!
Per definirmi bastava scrivere 135 Euro, tessera del bancomat e che non ho carta di credito.
Tanto serve e tanto basta, no?

Invisibilmente vostro da un altro pianeta.

giovedì, luglio 08, 2010

Porte chiuse


La foto fa schifo, lo so da me.

Porte chiuse
Non c'è mistero
Non c'è curiosità
Non c'è interesse
Una non ha la maniglia
Sono solo porte chiuse

venerdì, luglio 02, 2010

Due foto, tre scritte.


Questa scritta si può vedere lungo il naviglio della Martesana su un muro della cascina Gogna, ormai abbandonata, a Bussero.
L'avevo vista per la prima volta molto tempo fa. Forse risale proprio a quel periodo,quando l'Italia era divisa tra Coppi e Bartali.
Mi piace come sono scritte le "W" di viva e abbasso, indice che lo scrittore non aveva dimestichezza con questa lettera straniera.



Anche questa foto l'ho scattata lungo il naviglio, ma, questa volta, io fotografo da Gorgonzola e il muro è a Cassina de' Pecchi.
Il più con l'accento per me è una novità.
Quello che mi dà da pensare è che, la prima scritta a sinistra, io la traduco con: "Ti amo, ma se hai bisogno di me, non mi scassare la minchia".
Credo che l'autore non volesse dire questo.
La seconda , quella a destra, non la capisco del tutto.
Capisco che il  6  vuol dire "sei" e che il  +'  vuol dire "più" ma, "Quando sei il più grande sogno, il più grande incubo", che vuol dire?
Qual è il messaggio?
Però ha il più con l'accento e finisce con quattro punti esclamativi.