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sabato, febbraio 27, 2010

Burocrazia 2 ovvero del perchè l'Amazzonia è destinata a diventare un arido deserto

Nel febbraio del 2005 dovetti entrare, per la prima volta in vita mia, nell'Agenzia delle entrate.
L'Agenzia delle Entrate si chiama così proprio perché si sa che ci si entra ma non come, né quando, si esce. Forse è meglio dire si esca, l'uscita non è per niente certa.

Mi ero preparato da anni a questo evento e sapevo le cose fondamentali.
Conosco fin da bambino l'episodio delle 12 fatiche di Asterix in cui il gallico deve richiedere un modulo nella casa che rende folli, questo è tutto il necessario da sapere a proposito della burocrazia. Norme, regole, anche gli uffici dove andare per presentare una data dichiarazione o non so cos'altro, cambiano di momento in momento e sono solo un inutile fardello, il cui peso farà aumentare il senso di frustazione del cittadino convinto che la conoscenza di queste gli renda più facile il tortuoso percorso nella burocrazia.



Il motivo per cui dovetti recarmi, per forza e non per mia volontà, in un così triste luogo fu per presentare una dichiarazione di successione.

Nel mio paese esiste da tempo un ufficio di questa Agenzia e, da qualche anno, si trova in un edificio nuovo, appositamente costruito, situato in una zona abbastanza defilata. Poco traffico e parcheggio facile, oltre a non dover andare a Milano, erano fatti che mi fecero quasi gioire.

Per di più mia sorella lavorava in uno studio che aveva a che fare con questa Agenzia e, con l'aiuto di un suo collega, aveva già preparato il modulo per la dichiarazione e calcolato il dovuto.

Io invece avevo già fatto il giro degli uffici comunali e del catasto per recuperare tutti i documenti necessari. Tranne per il fatto che l'indirizzo dell'immobile era situato in una via inesistente, cosa strana perchè sulla copia scritta a mano degli anni '60 l'indirizzo è giusto, probabilmente un errore di trascrizione durante il periodo della rivoluzione informatica e, si sa, durante i torbidi di una rivoluzione si ghigliottina qualsiasi cosa, anche gli indirizzi, non avevo avuto particolari problemi.

Mi ero recato anche in tabaccheria per acquistare qualche esemplare di quello strano pezzo di carta che si chiama marca da bollo. Queste si riconoscono non solo perché lo hanno scritto sopra, ma anche perchè hanno quella simpatica caratteristica per cui si usano solo per valori diversi da qualsiasi cifra tonda conosciuta in tutti gli universi possibili e in tutti i sistemi di numerazione.
L'ideale burocratico del valore della marca da bollo è tot euro virgola un numero primo di centesimi, altrimenti sarebbe troppo facile dividere questo numero, nel caso che ciò serva, e darebbe l'impressione al cittadino di trovarsi di fronte ad un tentativo ordito dalle forze antidemocratiche per privarlo delle sue libertà fondamentali.
Cosa che ben sapevano i romani antichi quando coniarono il motto divide et impera.

In uno dei miei rari momenti di ottimismo mi ero anche recato in banca per pagare il dovuto. Considerato che l'importo era stato calcolato da un professionista del settore confidavo nel fatto che fosse esatto e non ci sarebbero state contestazioni da parte dell'Agenzia. Non arrivavo a sperare di limitare ad una sola visita i miei incontri con l'Agenzia, sarebbe pazzia bella e buona una speranza simile, confidavo solo che la sostanza del pagamento fosse esatta e di trovarmi di fronte solo alla contestazione di qualche errore di forma che mi avrebbe portato, al massimo, ad un altro paio di visite in tal luogo.
Per il pagamento dovetti compilare il modulo, ma lo chiamano modello, F non mi ricordo che numero, suddividendo il totale in 5 o 6 voci, una per riga, ognuna delle quali era identificata da un codice alfanumerico che decodificai grazie alle istruzioni stampate sul verso del modello stesso.
Come forma di crittografia, cioè il messaggio codificato e le istruzioni per decodificarlo sullo stesso pezzo di carta, non mi sembra molto furba. Probabilmente ciò è dovuto all'allentarsi delle maglie della sicurezza in seguito alla fine della guerra fredda, ma questa è solo una mia ipotesi.
Non mi ricordo il numero del modello F perchè lo confondo con gli aerei da guerra americani, non che ci sia molta differenza, entrambi, gli aerei F e i modelli F, si usano per far danni. Forse lo chiamano modello, invece che modulo, perché è un modellino di un aeroplano, un aereomodello, come dimensioni ci siamo. Però non capisco perché abbiano stampato un codice crittografico invece che le istruzioni di montaggio e le linee per segnare dove piegare la carta.


PRIMA VISITA

Io e mia sorella ci rechiamo in quell'edificio con in mano la dichiarazione, duplice copia. Una delle due copie contiene i documenti allegati. In totale sono pochi pochi etti di carta. Se all'interno il riscaldamento fosse stato troppo alto avremmo avuto a disposizione due ventagli un po' pesanti.
Una volta entrati ci si apre davanti una bella sala, un open space, con tre isole a destra e tre a sinistra, ogni isola è composta da una scrivania contornata da armadi e tre sedie, una per l'impiegato e, dall'altra parte della scrivania, due per i clienti.
No, clienti non va bene. Lascerebbe intendere un rapporto patrono-cliente, il clientelarismo, che potrebbe far sospettare qualcosa al limite della legge. Non sia mai! Anche paziente non va bene, è già usato in campo medico, benchè lì, all'Agenzia, la pazienza trova la sua ideale palestra per allenarsi. Visto che non trovo parole migliori direi che due sedie per due cittadini possa andar bene.
Lungo la parete opposta all'entrata una serie di piccoli uffici.
All'entrata una macchinetta per dare i numeri - dare i numeri per fare la fila, non fraintendiamo - con pochi pulsanti. Schiaccia questo per far la fila per questo, premi quell'altro per fare altro. Abbastanza semplice, rientriamo in uno dei casi considerati dalla macchinetta. Premo il bottone e ritiro il biglietto numerato.
Delle frecce appese al soffitto ci indicano che dobbiamo andare alla terza isola a destra. Nell'open space, appena davanti alle porte degli uffici, ci sono delle sedie per chi deve attendere. Ci sediamo.
Mia sorella parla, io non ascolto - è una cosa che va avanti da quarant'anni ormai, lei parla, io non ascolto, ma tutto sommato ci capiamo - per ingannare l'attesa leggo il biglietto che tengo in mano.
Guardo il numero. Che bello, ne abbiamo davanti solo tre. C'è anche il tempo d'attesa stimato...Cazzo!
Un'ora e venti per ricevere tre pratiche!
Sta cazzo di macchinetta s'è messa a dare i numeri o sono capitato in uno zoo di bradipi da corsa?

[ Tempo d'attesa. E non c'è nemmeno la musichetta.]

Sono passati circa 20 minuti e l'impiegata si alza e dice ad una collega che la linea continua a cadere e deve chiudere il sistema.
Smanetta un po' con la tastiera, si alza e guarda il monitor.
La sigla di chiusura di windows allieta l'ambiente.
L'impiegata se ne va in uno degli uffici.

[Tempo d'attesa. Sconforto.]

Ma dopo solo 5 minuti un'altra impiegata esce dal suo ufficio e ci chiede cosa dobbiamo fare.
Spiego e lei ci fa accomodare in un ufficio.
Sfoglia la pratica e...
1) La marca da bollo non va bene. Pochi giorni prima una direttiva ministeriale o qualcosa del genere ha imposto un aumento di tot euro virgola un numero primo di centesimi. Non è un problema ma bisogna integrare.
2) Tra i misteriosi codici del pagamento un paio hanno subito una variazione dell'importo, in più, per non so qual motivo. Non è un problema ma bisogna integrare. Si deve fare un altro versamento con un altro modello F stesso numero.
3) Due copie della dichiarazione non bastano, ce ne vogliono quattro. C'è di mezzo un immobile e, oltre alla copia per l'ufficio e quella per il richiedente, ci devono essere anche essere quella per il comune e quella per il catasto.

Ci dice di ripassare, così la dichiarazione non può essere accolta.
Salutiamo e usciamo


SECONDA VISITA ( Qualche giono dopo )

Dopo aver integrato e fotocopiato, sempre io e mia sorella, torniamo in quell'ufficio.
Il peso del plico è quasi raddoppiato.
Dopo una breve attesa ci sediamo davanti alla scrivania nell'isola in cui si ricevono quel tipo di dichiarazioni. Questa volta il sistema funziona.
L'impiegata sfoglia, controlla le varie voci crittografate dei pagamenti, fa qualche rapido calcolo con una calcolatrice, guarda lo schermo del computer e poi ci rivolge la parola:
"I calcoli sono corretti ma servono le fotocopie degli allegati"
Io rispondo:
"Sì, certo. Ho fotocopiato gli allegati, gli originali li ho messi nella dichiarazione e le fotocopie le ho a casa. Non si sa mai..."
Mi interrompe:
"Non ha capito. Servono le fotocopie degli allegati, pagamenti compresi, da allegare nella dichiarazione in aggiunta agli originali".
Mi viene da rispondere trentatre trentini entrarono in Trento ma mi esce solo un:
"Mah...Fotocopiare tutto? Già ci sono gli originali"!
"Servono le fotocopie degli allegati, anche quelle di un documemento d'identità con fotografia di tutti i dichiaranti e le fotocopie di tutti i codici fiscali".
Quando sento codici fiscali ho un piccolo sussulto. Quelle parole mi ricordano qualcosa.
Mi giro un po' a destra e, a circa 5 metri da me, c'è la porta di un ufficio sulla cui porta è appesa una targa su cui è scritto, RILASCIO CODICE FISCALE, o una cosa del genere, non ricordo le parole esatte. Mi passa per la testa di chiedere perchè l'istituzione deputata al rilascio di quel documento vuole una fotocopia dello stesso, quando c'è lì di fianco l'ufficio che li dà, ma mi trattengo dal farla per la paura che mi risponda.

Torniamo a casa con il nostro plico non ancora accettato.


TERZA VISITA ( Passa ancora qualche giorno )

Vado da solo con il plico che ormai pesa più di un chilo. Tra dichiarazioni, moduli, documenti, certificati e tutte le fotocopie, ordinatamente inserite in ognuna delle quattro copie della dichiarazione, da un o spessore di meno di un centimetro è lievitato a quasi dieci. Ad essere onesti avevo già pronta anche una quinta copia, con tutte le fotocopie. Non si sa mai.
Penso costernato a quanti alberi sono stati abbattuti per fare la carta che compone quel mattone che è la mia pratica.

Stessa isola e stessa impiegata. Non c'è nessuno oltre me a sbrigare quel genere di pratica dunque vado direttamente da lei senza neanche dover prendere il biglietto per far la fila.

Mi presento davanti alla scrivania tenendo tutta quella carta sulle braccia, come si tiene un bambino quando lo si culla.
Ancor prima che mi sieda, l'impiegata, con una smorfia tra il pietoso e lo schifato, mi dice:
"Lei ha messo le fotocopie in tutte le copie".
Non me lo domanda. Lo afferma.
Intuisco che c'è qualcosa che non va ma, onestamente, dico di sì.
"Le fotocopie servono solo nella copia per questo ufficio, nelle altre tre copie non ci vogliono. Le tolga. Intanto mi dia la copia della dichiarazione con gli allegati originali che la controllo".
Gli consegno la copia e comincio a smazzare le carte delle altre tre copie.
L'impiegata mi dice che c'è ancora qualcosa che non va, ma è proprio una cosa da niente che posso fare in giornata. Mi propone di lasciare tutto sulla sua scrivania, andare a fare quella cosa, ritornare lì prima di una data ora e la pratica serebbe stata accettata.
Io non ho tempo, in più sono incasinato con la carta. Non riesco più a capire qual è il mazzo delle dichiarazioni da consegnare e quello delle fotocopie che ho tolto. Temo di aver mischiato le copie con le fotocopie, anche perchè le copie sono comunque delle fotocopie, difficile distinguerle.
Le dico che sarei tornato nei prossimi giorni.


QUARTA VISITA ( L'indomani )

Dopo aver sbrigato quella cosa, non ricordo quale, e messo in ordine tutte le copie della dichiarazione rivado da solo all'Agenzia delle Entrate.
Il plico è molto dimagrito dal giorno prima ma, a casa, ora ho una pila di carta che mi servirà per gli appunti, la lista della spesa, le barchette e gli aeroplanini, se fossi più giovane anche per fare i bussolotti della cerbottana, per gli anni a venire.

C'è solo un signore, già seduto alla scrivania, davanti a me. L'impiegata è un'altra persona.
Mi siedo su una delle sedie riservate a chi aspetta. Sono abbastanza vicino e c'è quel tanto di silenzio perchè possa ascoltare il discorso tra il signore e l'impiegata.
Ci deve essere un problema tra il codice fiscale del signore e il sistema informatico.
"Il sistema non lo prende". Dice l'impiegata.
"Ho sempre avuto questo codice fiscale e non ho mai avuto problemi". Risponde il signore.
...
L'impiegata:"Nel sistema questo codice non esiste".
Il signore: "Ma io esisto, sono qua e devo fare ...".
...
Comincio a pensare che il problema riguardi l'essere. Forse il signore, ancora non lo sa, ma non è.
E' proprio il suo codice fiscale che attesta il suo non essere.
Mentre penso a questo sento dei rumori provenire dall'ufficio alle mie spalle, mi giro e vedo uscire dalla porta una lepre, una tartaruga e, un passo più indietro, Zenone.
La lepre si rivolge alla tartaruga:"Col cazzo che rimango a lavorare qui, io me ne scappo". Così dicendo tenta uno scatto ma la tartaruga, con una insospettata sveltezza, allunga una zampa e la sgambetta, facendola cadere. Mentre la lepre rotola per terra la tartaruga urla:"Non pensare che sia così facile". Zenone si china e prende per il collo la tartaruga e per le orecchie la lepre. Rialzandosi in posizione eretta, con un animale per mano, scambia un'occhiata con l'impiegata e il signore esclamando:"Che situazione paradossale"!

"Tocca a lei". Sento dire l'impiegata. Mi devo essere distratto, tocca a me. Speriamo bene!

Controllo marche da bollo: PASS
Controllo dichiarazione: PASS
Controllo copie: PASS
Controllo pagamenti: PASS

La dichiarazione va bene e può essere accettata, naturalmente sarà controllata e, se qualche detrazione non verrà riconosciuta come valida riceverò a casa la cartella di pagamento a cui potrò fare ricorso entro e non oltre il termine...

L'impiegata stampa la ricevuta, duplice copia. Me ne guardo bene dal chiederne altre.

Prende il plico e si sposta su un tavolino a fianco della scrivania.
Comincia a menare colpi fortissimi sulla pratica con un timbro di notevoli dimensioni, un attrezzo simile in altri ambiti lavorativi viene usato per le demolizioni. Ogni due colpi preme il timbro sopra un tampone per l'inchiostro.
Mi riconsegna la pratica.
I timbri sono illeggibili, presentano solo tracce d'inchiostro. Guardo il tampone per timbri e mi accorgo che è un po' antiquato, con il bordo in legno pregiato, e con il tessuto che dovrebbe essere imbevuto d'inchiostro molto sfilacciato e profondamente scavato. Probabilmente è un'eredità della precedente amministrazione, quella del Lombardo-Veneto intendo. In compenso la copia della dichiarazione che ho in mano è trapassata da parte a parte.
Non credo che sia sopravvissuta alla timbratura.

martedì, febbraio 23, 2010

Burocrazia 1 ovvero del peso dei neonati e dei permessi necessari per ottenerlo


Settembre o ottobre dell'anno scorso, mattina, verso le 10.
Mia sorella deve portare il piccolo a fare la seconda vaccinazione. Mi aveva chiesto di accompagnarla giorni prima.
Nessun problema. Il dispensario, il consultorio o come si chiama adesso - ogni tanto gli cambiano nome a ste cose mediche e io non riesco a stare al passo con queste variazioni di vocabolario - insomma, il posto dove devono fare l'iniezione al nipotino è nel mio paese, ha perfino di fianco un parcheggio quasi sempre semivuoto.
Mentre siamo in macchina mia sorella mi dice:
"Quando siamo là gli chiedo di pesarlo, così, nel caso gli venga la febbre so quante gocce di tachipirina dargli".
"Perché non l'hai pesato tu"?
"Perché la pesa che ho a casa arriva fino a 5 chili e ormai lui pesa di più".
"Una modifica alla bilancia? Un altro sistema per pesarlo non l'hai pensato? Sempre dipendere dagli altri tu". Scherzo un po'.
"Dai, non fare il pirla. L'hanno pesato anche alla prima vaccinazione comunque".

Arriviamo. Scarico e montaggio carrozzina. Entriamo nell'edificio. Un po' di fila. Anche se queste cose sono fatte per appuntamento c'è sempre qualche carta da dare a qualcuno e non si capisce mai a chi darla. Quando si entra in quei posti c'è sempre un momento di smarrimento prima di capire se passa l'infermiera o sei tu che devi andare dall'infermiera a ritirare o consegnare il foglio.
Mia sorella però c'era già stata uno o due mesi prima e sa già dove andare. Mi fa d'apripista e io slalomeggio con la carrozzina tra le persone in attesa agli sportelli.
Oltrepassiamo una porta di vetro e arriviamo davanti alla porta in legno dell'ambulatorio.
Bussa.
Apre una signora in borghese e mia sorella dice:
"Buongiorno. sono qua per la vaccinazione".
"Lei è la signora X? Attenda un attimo, finiamo con Y e poi tocca a lei"
Grandioso!
Non solo sono arrivato subito al posto giusto, sono addirittura in orario. Non mi lascio andare a scene di giubilo solo perché la mia innata timidezza me lo impedisce.

Entriamo.
Tre signore tutte senza camice. Una è il medico, una sarà l'infermiera e l'altra chissà. Non è un' infermiera perché...Come ho fatto a capire che non era un'infermiera? Ah, non l'ho capito, l'ho saputo dopo quando si è messa, in un ufficio lì di fianco a compilare dei moduli e la detto lei. Non è importante comunque se lo fosse o no. Non è importante neanche com'erano vestite. Poi a me che odio le uniformi!

"Ma che bel bambino, assomiglia al padre".
"Sono lo zio".
"Mi scusi".
"Di nulla".

Mia sorella chiede:
"Potremmo pesarlo? Almeno so quante gocce di tach..."
"No, non possiamo certificare il peso del bambino".
Sguardo interrogativo tra me e mia sorella.
"No, non voglio certificare niente, anche l'altra volta l'avete pesato per sapere, nel caso che , in seguito alla vaccinazione, gli venga la febbre...". Dice mia sorella
"Eh signora! L'altra volta eravamo abilitati al peso dei neonati. Ma da..." La dottoressa si rivolge ad una delle altre due: " Quanto sarà? Un mese, cinque settimane...".
"Da fine Luglio". risponde l'altra.
"Sì, da fine luglio la competenza del peso è stata trasferita all'ambulatorio nonmiricordocomesichiami all'ospedale".
Io in questi casi sto zitto. Questione di carattere, davanti a queste situazioni incomprensibili non trovo le parole. Mi giro platealmente verso la bilancia pesa bambini che ho di fianco e la fisso per qualche secondo. Guardo le tre e riguardo la bilancia. La bilancia è più comprensiva e sembra volermi dire qualcosa ma vince la paura di perdere il posto e sta zitta.
Nessuna reazione delle tre, mi guardano ma fanno finta di non capire.
Mia sorella:
"Capisco". Mia sorella non ha capito niente, come me, ma così dice. "Ma a me serve solo sapere se è 6 o 7 Kg. Solo per sapere se dargli x o x+1 gocce".
"Signora, non è più nostra competenza, gliel'ho detto, vada all'ospedale all'ambulatorio abilitato al piano tot, non è nemmeno necessaria la prenotazione al CUP, e glielo pesano anche tutti i giorni".
Ci guardiamo io e mia sorella.
La mia è un'occhiata molto espressiva che dice:
"Sorella, facciamola breve, qui non si cava un ragno dal buco, va bene che l'ospedale è a meno di un Km., ma per non far tutto il casino di andarci, smonta carrozzina, rimonta carrozzina, facciamo così. Andiamo dove pesano i camion e passiamo sulla pesa con la macchina con sopra noi tre. Leggiamo il peso. Poi tu e tuo figlio scendete e ripasso con l'auto con sopra solo me. Rileggiamo il peso. Quando ritorniamo a casa tu vai sulla bilancia pesapersoneadulte. Facciamo la differenza tra il primo passaggio sulla pesa dei camion ed il secondo. Al risultato sottraiamo il tuo peso e avremo il peso del piccolo. L'alternativa sarebbe una strage".
Lei mi risponde con un'occhiata interrogativa:
"Che palle però! E poi perché dovrei scendere anch'io e poi pesarmi"?
Altra mia occhiata:
"Oh madre snaturata! Vorresti forse tu far scendere dall'automobile un piccolo di neanche sei mesi da solo"?
Occhiata di mia sorella:
"Oh fratello geniale et zio amorevole! Faremo senz'altro così".

Mi sono lasciato prendere un po' la mano nel finale ma tutto il resto è solo quello che ho sentito.
Quello che però più mi preoccupa è se, quando mi peso da solo, non avendo né permesso né patente, commetto un reato?

sabato, febbraio 20, 2010

Clavicembalo


Il bello di abitare in una zona della provincia di Milano in cui si vedeva la talevisione Svizzera Italiana non era solo la possibilità di vedere il loro telegiornale ma anche quella di vedere delle trasmissioni, in ore che andavano dalla prima serata fino a notte fonda, sia interessanti che stranissime.
Tra quelle stranissime ricordo una che parlava del significato dell'ombra, di come fosse bistrattata anche nei quadri di pittori famosi. Ad un certo punto mi chiesi cosa stessi ascoltando.
Un'altra trattava della moda, allora ancora nelle sue fasi iniziali, del piercing. Quando vidi un uomo, era un professore di filosofia, trapassarsi il glande con un anello di metallo ebbi un fremito di paura per lui. Non tanto perché io non ammetto piercing sulla mia pelle ma perché da lì passa l'uretra. Come avrebbe fatto a far pipì?
Principe Albert mi pare che si chiami quel tipo di piercing, proprio perché un principe Albert se l'era fatto ai suoi tempi. L'eterno ritorno delle mode. Bello, lascia la speranza, anche ad un ateo come me, che nulla muoia completamente.
Le trasmissioni interessanti erano talmente tante che sarebbe un esercizio inutile elencarne qualcuna. Documentari di ogni genere e anche programmi sui fatti d'attualità.

Trasmettevano anche molta musica.
Ho una predilezione per le tastiere perché da lì sono passato, anche se con risultati men che scarsi. Mi piace vederle le tastiere oltre che ascoltarle. Uno dei pochi musei che ho visitato da solo è quello degli strumenti musicali al castello sforzesco a Milano. Quando ci andai mi ritrovai solo, non c'erano altri visitatori né custodi, in quelle stanze e non resistetti alla tentazione di mettere le mani sulle tastiere dei clavicembali, spinette e chissà cos'altro, accessibili anche se protette da un vetro. Non per suonare, solo per vedere il meccanismo, per sentire il timbro e appezzare la durezza. Bella giornata!
Mi piace soprattutto vedere suonare. Vedere tutto il musicista, come si muove, le sue espressioni e soprattutto le mani in movimento.

Fra le cose che ricordo meglio, e con più piacere, c'è un documentario sulla vita di Wanda Landowska.
Questa signora è stata tra i primi a riportare in auge il suono del clavicembalo durante i primi anni del secolo scorso. Per poter far questo si fece costruire uno strumento, di funzionanti ce n'erano ben pochi, che viene descritto come un monumento pesantissimo. Oltre all'interesse che avevo per quello strumento mi affascinò il movimento delle sue mani su quella tastiera, sembrava che il premere ogni tasto costasse uno sforzo di decine di chilogrammi. Nonostante questo sorrideva.
Me la immagino mentre trasporta il suo clavicembalo pesantissimo, per nave, da un porto all'altro per far rivivere un suono che stava per essere dimenticato.

venerdì, febbraio 19, 2010

Piove

Piove a Lazise.
Piove a Desenzano.
Ma che tempo fa...
A Sirmione?
Piove.

giovedì, febbraio 18, 2010

1981, una mattina di metà settembre.

Eravamo in due quella mattina di metà settembre.
Gli altri due non si iscrissero in quel liceo, uno preferendo una scuola privata e l'altro smettendo di studiare. Anche Angelo, che stava in quel momento al mio fianco, non avrebbe terminato l'anno in quella scuola e sarebbe andato, a metà anno, in un liceo privato. - Lì si paga e mi fanno passare di sicuro, lo hanno detto a mio padre - mi spiegò.
Per me questo non era possibile.
Lì ero entrato e da lì dovevo uscire.
Anche la mia famiglia non credo avrebbe accettato di percorrere la scorciatoia della scuola privata. Non posso esserne certo perché, a volte, per i figli si finisce per fare cose che costano più del loro prezzo in denaro. Limitandomi ai fatti non parlammo mai, in famiglia, di comprare un anno di scuola.
Quel giorno, il primo del nuovo anno scolastico, fummo i primi ad entrare nell'aula.
Era un piccolo locale ricavato nel sottotetto, il soffitto inclinato e una fila di finestre basse lungo la parete opposta a quella della porta che stavamo oltrepassando. A sinistra vedevo la lavagna, attaccata al muro, sotto la quale stava la cattedra. Attaccata alla cattedra c'era la prima fila di cinque banchi, poi cinque sedie e altre tre file di banchi e sedie. Guardando a destra, verso il fondo dell'aula, si notava una strana struttura di tubi d'acciaio, larga quanto metà della parete, che serviva per appendere i cappotti.
Piccola, giusto lo spazio per potersi muovere tra l'arredamento e le pareti ma, sia per il soffitto spiovente che per le persiane che mitigavano un po' la luce che proveniva dalle finestrelle, carina e accogliente. Aveva un che di caldo, di intimo. Più che un'aula sembrava un localino in cui amerei fare altre cose, ma questo lo sto pensando adesso, allora mi sembrò solamente un'auletta minuscola ma in cui si poteva vivere decentemente.
- Dove ci sediamo? - Chiese Angelo.
- Visto quello che ci è capitato direi di non stare nell'ultima fila, daremmo subito l'impressione dei reietti, di quelli che si vogliono nascondere. La prima fila è troppo esposta però, è addirittura attaccata alla cattedra. Direi di sederci in seconda. - Risposi.
Lì, nella seconda fila, prendemmo posto.

La classe si riempì.
Come spesso accade ci fu quel reciproco sbirciarsi tra sconosciuti.
Tra tutti quelli che entrarono conoscevo solo una ragazza con cui era capitato, nel corso degli anni precedenti, di scambiare qualche parola mentre, noi gruppo di studenti che abitavamo in uno dei paesi serviti da quella linea, attendevamo l'arrivo del pullman. Altri due li conoscevo solo di vista. Tutti gli altri erano dei perfetti sconosciuti. Lo trovai strano, dopotutto era lo stesso liceo che frequentavo, anche se provenivo da una sezione staccata e lì, dove mi trovavo, era la sede, anche se ospitata nei locali di un oratorio. Locali sfruttati fino al sottotetto. Comunque sia mi trovai circondato da una maggioranza di gente mai vista prima.

Arrivò il momento della prima ora di lezione con la prof di storia e filosofia, anche lei mai vista prima.
Dopo qualche parola di circostanza rivolta a tutta la classe si rivolse a me e ad Angelo. Ci chiese, in modo un po' brusco, cosa avevamo fatto l'anno passato, come mai ci trovavamo ancora lì, al liceo.
Cominciò a parlare Angelo e disse delle sue assenze, del poco che aveva studiato e di quanto avrebbe studiato quell'anno.
Mentre parlava lo guardavo un po' sorpreso perché, nonostante le sue tante assenze ed il fatto che avesse studiato poco, anche per lui quella punizione era stata eccezionale, oltre che stupida. Non potei fare a meno di pensare: - Ma senti che paraculo, neanche Enrico IV a Canossa...-.
-E tu, cos'hai da dire?- Mi chiese.
No, posso anch'io mentire, quello che dissi non fu per amore di verità.
Egoismo, l'egoismo di non poter ammettere, per quell'episodio della mia vita, neanche una piccola menzogna da barattare con un piccolo vantaggio, quello forse sì. Non venni neppure sfiorato dall'idea che quello stavo dicendo potesse essere un vantaggio o uno svantaggio. Dissi semplicemente quello che pensavo, che penso tuttora. Lo dissi con naturalezza ed ingenuità, solo quello potevo dire.
L'unica cosa furba che feci fu quella di non dire nulla di quello che pensavo di parte del corpo insegnante dell'anno passato.
Dissi che non ne avevo la minima idea di quello che era successo nell'ultimo consiglio di classe dell'anno scorso e del perché era successo. Dissi che avevo la coscienza a posto. Dissi che mi trovavo lì, un fatto è un fatto, e mi sarebbe piaciuto sapere, magari da lei che era un'insegnante e forse sapeva qualcosa per sentito dire dai suoi colleghi, come mai mi trovassi lì.
Non mi ricordo con che parole dissi questo, non era una parte di un canovaccio che si impara a memoria, ma il senso fu quello.
La prof, quando ebbi finito di parlare, abbassò per un attimo lo sguardo. Quando lo rialzò fu per guardarmi mentre mi diceva all'incirca queste parole:
- Ecco, a differenza di te, il tuo compagno è onesto, lui ammette i propri errori, spero che andando avanti...".
A questo punto smisi di sentire, non di ascoltare, proprio di sentire, e cominciai a pensare:
-Bene, cominciamo bene. Invece che dirgli le palle che vuol sentire gli dico la verità e mi becco addirittura del disonesto. Cominciamo proprio bene!-
Della restante parte di quella lezione non conservo nessun ricordo se non quello della bile, dell'adrenalina e chissà quali altri succhi che mi circolavano nel corpo.

Al cambio dell'ora scambiai giusto qualche parola con Angelo. Mi ricordò la convenienza della paraculaggine. Mi incazzai ancor di più.

Entrò il prof d'italiano e latino. Stessi convenevoli dell'ora precedente e stessa domanda a noi due.
Cominciò sempre Angelo e disse le stesse cose che aveva detto prima.
Mentre parlava io me ne stavo con gli occhi fissi sul banco. Dovendo stare seduto e non potendomi nemmeno sfogare con una corsetta la mia tensione aumentava. Un po' mi davo mentalmente dello stupido e un po', sempre dentro di me, bestemmiavo il bestemmiabile, dei, dee, donne, uomini, piante, animali e chissà cos'altro.
Quando il prof chiese a me del perché...Ecco, le parole che dissi me li ricordo esattamente, il senso era quello di prima ma erano poche e assolutamente non pensate.
Risposi di botto:
-Non lo so, ma se mi mettono i professori dell'anno scorso davanti a un muro e ho in mano un mitra io sparo.-
Il prof fece una smorfia, non di disgusto, quel tirare le labbra quasi a voler esprimere un dubbio, e disse:
-Non hai pensato di rivolgerti al TAR?-
-Se mi capita una disgrazia non ne cerco un'altra-. Risposi.
E fu allora che sentii le più belle parole che mi ricordo di aver sentito, forse dette solo per sciogliere un momento di tensione, non una predica , solo due parole, quelle servivano e furono dette:
-Ti capisco-.




(Nomi di persona inventati)

martedì, febbraio 16, 2010

Sücc


La s è una s, non so dire se sonora o sorda, non le distinguo. La ü com i due puntini, la dieresi, l'umlaut e come cazzo si chiama in altre lingue è quella u che si trova un po' dappertutto, turco, ungherese, francese, tedesco... ma in italiano non c'è. La doppia c finale è la c palatalizzata, quella che in inglese e spagnolo si scrive con ch.
Significa asciutto.
E' la definizione del mio carattere.
Non perchè lo dico io.
Me lo sono sentito dire tante di quelle volte!
Scusate.

domenica, febbraio 14, 2010

Non vorrei dare l'impressione di essere vanitoso


Tutte le volte che sento qualcuno che mi dice che sono intelligente ho un'involontaria contrazione dello sfintere e dei glutei.
Ho un bel culo.
Tonicità data dall'allenamento.

Les in-con-nus

Sono un trio comico francese.
Il nome del gruppo significa gli sconosciuti.
Quando appare il nome del gruppo nella sigla che introduce i loro spettacoli è, come ho scritto nel titolo, diviso in sillabe. La sillaba centrale "con" è particolarmente evidenziata dalla grafica della sigla perchè il suo significato è quello di una parte dell'apparato riproduttivo femminile.
(Eh cazzo, marco...! chiamala con il suo nome... la con è la figa. proprio quello significa con).
Ho cercato lo sketch del telegiornale italiano, il cui video è quello che sta qui sotto e l'ho tradotto come ho potuto.
Il solito gioco del come gli italiani sono visti all'estero.



Buonasera a tutti.
Si è sempre senza notizie del piccolo Silvio Barattini che è stato rapito la settimana scorsa dal domicilio della famiglia. La polizia prosegue sempre le ricerche. Questo è il 4627esimo rapimento dall'inizio della settimana.

Ancora un furto di quadri, che è stato fatto la settimana scorsa, sempre al museo di Roma. Si dice che sia stato il guardiano del museo, che sarebbe complice del conservatore del museo, il quale ha accusato il ministro della cultura.
Se volete visitare il museo sbrigatevi, restano ancora 2 quadri.

Continuiamo con le notizie che riguardano le esequie di Guido Barzotti, che è stato assassinato - il presidente della San Pellegrino - le esequie che si faranno domani mattina. Il presidente Barzotti, assassinato due settimane fa dalle brigate rosse, che era implicato nell'affare delle fòbie(?) . L'affare delle fòbie(?), del quale si serviva la mafia perchè i mitra, che erano la copertura per acquistare la cocaina, la cocaina della quale si serviva il governo ed il ministero della salute per organizzare i balletti rosa, i balletti rosa che erano coperti dalla copertura del presidente della repubblica e il presidente della repubblica ha detto "Eh, è la vita, che posso fare".
Sì, ciao a tutti, buonasera.

Finisce dicendo qualcosa a proposito dei suoi pantaloni.

Eh... La mafia, i mitra per coprire la cocaina e i balletti rosa con chissà quante donnine -se lo facessero gli uomini sarebbero uomìni? Boh, limitiamoci ai trans- quante donnine a sollazzare i politici di turno...
Mi fanno ridere, tanto si chiede ai comici e questi con me ci sono riusciti.
Bravo les comédiens.





Ah, dimenticavo!
Questo
sketch sta per compiere vent'anni.
Com'è cambiata l'Italia!

Ho scritto che sono un trio ma nel pezzo precedente si vede solo uno dei componenti.
Inserisco i prossimi due video, molto brevi, per far vedere anche gli altri due attori.
Non metto la traduzione, non serve.








Per finire una parodia delle pubblicità a favore dell'uso del preservativo in vari paesi dell'Europa occidentale.
Così, senza tanti perchè.
Credo che sia comprensibile anche senza traduzione.

martedì, febbraio 09, 2010

Kukushka



Questo film mi è piaciuto.

Il numero perfetto

Venne il giorno di quello che avrebbe dovuto essere l'ultimo tema prima della maturità.
Tema unico , non lasciò nessuna scelta agli alunni.
Tema di letteratura. Avevo sempre cercato di scamparli i temi di letteratura con quell'impiegata statale perchè voleva che si dicesse quello che dicevano gli altri, i critici, ma pensando con la propria testa, citando a memoria passi delle opere, sia del critico che dell'autore. Insomma, per farla breve, si doveva commentare i commentatori per poter portare a casa un misero 6.
Eh sì! Io per lei ero un tipo da 6...perchè far fatica?
Di solito sceglievo tra le altre tracce, prendevo comunque 6, raramente qualcosa di più quell'anno, ma almeno mi divertivo a scrivere senza essere legato dalle citazioni di citatori che andavano citati per poter raggiungere la sufficienza.
Titolo del tema: "La religiosità del Leopardi e del Manzoni".
Ora, mentre sto scrivendo, mi fa già un certo senso vederli accostati; con la religiosità poi!
Mi faccio forza e continuo.
Non sto a spiegare per filo e per segno cosa scrissi, anche se a grandi linee me lo ricordo.
Non lo feci bene, questo lo sapevo mentre, controvoglia, lo stavo scrivendo. Rileggendo le tre pagine del foglio non era neanche una cosa orrenda. Avevo scritto di un argomento di cui m'importava ben poco ma in maniera leggibile. Le citazioni le avevo messe...Dei pezzettini di brani pure...
Se non era il solito 6 mi sarei aspettato poco di meno, un cinque se proprio voleva umiliarmi.

Passò qualche giorno.
Stranamente non ci consegnò il tema corretto in una delle sue ore ma, invece, arrivò una bidella con il pacco degli elaborati durante un intervallo tra una lezione e l'altra e ce li distribuì lei.
Quando presi il mio non rimasi di sasso. Mi ci volle un po' a capire. Se fossi uno strumento di misura sarei andato ben oltre il fondo scala ed almeno un fusibile si sarebbe bruciato per proteggere i circuiti.

3

Come 3?
In prima pagina, di fianco al titolo, un 3 e basta.
Ai miei tempi, benché la valutazione fosse in decimi, si usava comprimere i voti, in tutte le materie, tra il 4 e l'8, non ho mai capito il motivo, risevando gli estremi alle eccezioni, sia positive che negative. Non ho mai visto un 10, né mio né di altri, forse un 9 in tutti e cinque gli anni, sotto il 4 preferivano la sigla n.c. Non Classificabile.
Un 3 in un tema poi!
Apro il foglio, dopo un certo tempo di fissità dello sguardo, e mi aspetto di aver scritto tutte le congiunzioni "è" e tutti i verbi "e", sbagliato tutte le doppie, aver scritto un altro con l'apostrofo. Qualcosa di grave doveva esserci per giustificare un 3.
Niente.
Non un segno, non una correzione, non un commento.
Non mi monta la rabbia, perchè un 3 così era più di un insulto, e insulto era, più di...Più di qualsiasi cosa potessi immaginarmi.

Lo guardo e lo riguardo.
E' proprio un 3.
Rileggo.
Non vedo l'ombra di un motivo appena valido.

Chiedo ad un mio amico, oltre che compagno di classe, di accompagnarmi in sala professori.
Non mi ricordo, o meglio, non so come mai sia in sala professori e ha mandato una bidella.
Al mio amico chiedo di accompagnarmi non tanto perchè abbia paura di commettere un atto inconsulto ma perchè non riesco a capire cosa sta succedendo, magari lui ragiona meglio. Volevo sapere un perchè se non il perchè.
Cazzo!
E' troppo!
E' la condanna a morte per divieto di sosta.
Ci deve essere un errore.

Arriviamo in sala professori e lei è là.
Chiedo il perchè.
Mi risponde, con un sorriso - cazzo, sto ancora male scrivendo - che la parte sul Leopardi è miserina e sul Manzoni ho scritto quello che scrivono tutti.
Sì, proprio così, quello che scrivono tutti!
Mi dice di prenderlo come un avvertimento - sticazzi! un avvertimento quando è quello che avrebbe dovuto essere l'ultimo compito in classe d'italiano del liceo - Attento!!! Stai già cadendo nel burrone e tra 2 decimi di secondo ti schianti - Mi dice di non farne un dramma.
Io non so che cazzo dire.
Ma poi perchè la religiosità del Leopardi- avevo citato qualche brano della Ginestra - perchè la religiosità del Leopardi?
Perchè?
3

giovedì, febbraio 04, 2010

Se mi ricordassi i sogni che faccio

Se mi ricordassi i sogni che faccio mi piacerebbe sognare questo.
Montagna, sopra i 2000 metri, niente alberi, solo roccia biancastra e grigia e qualche chiazza verde, le ultime erbe che riescono a crescere a quelle altezze. Muschi e licheni colorano di di un verde bluastro e di giallo la parte esposta a nord dei massi che riempiono la piccola valle percorsa da un torrente che vedo davanti a me. Il torrente, a circa metà della valle, dopo una cascatella si allarga e forma un laghetto sufficientemente grande da lasciare le sue acque, dalla parte opposta a quella della cascata, tranquille e ferme in modo che vi si rifletta il cielo come in una nitida fotografia. Un cielo azzurro, quasi blu, con qualche rada nuvola bianca.
Avvicinandomi alla riva vedo che le acque sono limpidissime e lasciano vedere il fondo sassoso come se, invece dell'acqua, ci fosse solo una lastra fatta del più puro cristallo.
Tocco l'acqua . E' fredda ma tanto invitante per me che sono accaldato per la camminata. Poso lo zaino e mi spoglio. Tengo le mutande. Non si sa mai, forse un luccio, non si sa come finito proprio in quel laghetto, alla vista di un verme così grosso potrebbe essere preso da libidine gastronomica e addentarlo. E' un sogno, non voglio che si trasformi subito in incubo.
Faccio un passo ed entro nel lago. Rapidamente mi spruzzo un po' d'acqua addosso e mi tuffo.
Brivido!
La sensazione che la pelle abbia perso una misura e sia diventata di colpo troppo stretta per contenere tutto il corpo.
Riemergo in superficie, scuoto la testa e comincio a muovermi nell'acqua. Non proprio nuotare, faccio quei movimenti, quel girarsi e rigirarsi, mettersi un po' di schiena per poi ruotare come ci si rigira nel letto, quel giocare con se stessi, fare le capriole e non sentire la gravità come un astronauta.
Mi fermo al centro del lago e mi guardo intorno, girando un po' la testa e un po' ruotando tutto il corpo con dei minimi movimenti delle braccia e delle gambe in acqua.
Vedo una figura che si sta avvicinando. La seguo con lo sguardo. Quando è prossima alla riva la saluto. Risponde al saluto. E' una donna.
Lei si leva lo zaino dalle spalle e si spoglia, completamente. Non ha i miei problemi col luccio.
Anche lei non resiste all'invito di quell'acqua in una giornata con il sole che splende nel cielo quasi interamente terso e si tuffa.
Qualche bracciata ed è davanti a me. L'acqua fredda le ha gia fatto diventare le labbra blu, è stupenda.
Non parliamo, non c'è nulla da dire, tutto è così chiaro. Siamo abbracciati, ci baciamo, giochiamo tra un respiro e l'altro, un po' in superficie e un po' in apnea. Arriviamo, non so come, fin sotto la cascatella e lì, tra gli spruzzi e i baci che quasi tolgono completamente la possibilità di respirare, continuiamo a giocare.
Il mondo sotto quel cielo sono solo montagne e quel laghetto in cui tre corpi galleggiano. Io e lei avvinghiati e le mie mutande un po' discoste da noi.
Ora non ho più paura del luccio, non ce ne sarebbe motivo.
Adesso siamo sulla riva, sulle pietre, alcune aguzze che ci procurano dei piccoli taglietti sulla schiena. Delle perle rosse adornano la roccia grigia.
Siamo esausti e giaciamo, ancora bagnati, l'uno di fianco all'altra. Il sole è sempre alto in quel cielo e ci scalda.
Ci rivestiamo e riprendiamo il cammino lungo l'unico sentiero che percorre quella valle fino ad un bivio che si trova alla sua fine.
Io vado da una parte, lei dall'altra.

martedì, febbraio 02, 2010

vettori



I razzi vettori che avrebbero portato l'uomo sulla luna me li ricordo ancora.
Non vidi il primo passo sulla luna in diretta perchè tenere in piedi un bambino fino alle 5 di mattina - se l'ora giusta è questa - era impensabile per la mia famiglia. A letto dopo carosello sempre.
Mi ricordo di averlo visto dopo, forse una replica l'indomani o lì vicino.
Mio padre mi portò al museo della scienza e della tecnica a vedere la mostra che fecero per celebrare l'avvenimento; non mi ricordo l'anno, se era il '69 o già anni'70.
C'erano le riproduzioni del lem, delle tute spaziali e nel cinema che c'è, se c'è ancora, all'interno del museo proiettavano le scene dello sbarco.
Poi venne la passione per la fantascienza. Una volta una supplente, alle medie, mi sgridò e mi derise perchè in un temino avevo usato la parola mutante. Io la fissavo pensando che era una ignorante e lei si arrabbiava sempre di più. Certi professori mi prendevano per arrogante, una lo disse proprio ai miei genitori, perchè li guardavo dritto negli occhi le rare volte che avevano dei rimproveri da farmi. Non era arroganza. I miei mi hanno insegnato che quando si parla con qualcuno, anche quando lo si ascolta solo, lo si deve guardare, non si devono tenere glli occhi bassi o guardare da qualche altra parte e io così facevo. Parlavo poco, parlo poco, quello sì. Capisco che il fissarli e non dire niente potesse essere un po' inquietante.
Sono cresciuto con il mito del cosmo e delle stelle.
In terza liceo un bel giorno l'insegnante di matematica e fisica ci disse che dalla lezione successiva avrebbe iniziato a spiegare i vettori.
Esultai in cuor mio.
Quando, il giorno dopo, alla lavagna disegnò una freccetta e disse - Un vettore è caratterizzato da modulo, direzione e verso - e andò avanti a spiegare cos'è un vettore io ci rimasi malissimo. Ero convinto che i vettori fossero i missili, i razzi vettori della mia infanzia.