La foto mostra una
borraccia da ciclista che tengo in una libreria vicino alla scrivania
dove sto scrivendo, l’unico mobile libreria chiuso da ante di vetro
che c’è nel seminterrato che io chiamo crypta, dove conservo gli
oggetti – i libri sono comunque oggetti – che risalgono a tanto
tempo fa e che mi sono più cari, per quanto non abbiano più una
immediata utilità.
La borraccia è
rovinata. L’ho usata per molti anni e ancor di più chilometri con
la bici da corsa che avevo.
Risale alla metà
degli anni ‘70, un anno in cui il giro d’Italia terminava a
Milano. Anche se quest’ultima informazione è abbastanza inutile –
quasi tutti i giri terminano a Milano – quell’anno due miei
cugini, più anziani di me, che abitano in questa città andarono a
vedere l’ultima tappa.
Qualche settimana
dopo c’incontrammo e, tenendo uno di loro questa borraccia in mano,
così mi dissero: “All’ultimo giro eravamo all’esterno di una
curva e vediamo nel gruppo Gimondi che butta via la borraccia. È
rotolata proprio dove eravamo noi, ai nostri piedi. Non abbiamo
dovuto fare altro che raccoglierla. C’era dentro ancora del the”.
Annusai e ne sentii
l’aroma.
“Tieni, è la
borraccia di Gimondi, tienila tu”.
Il ragazzino che ero
fu felice.
Non posso
dimostrare, né ho alcuna intenzione di farlo, che questa sia
veramente la borraccia di Gimondi.
Ma, come per le
reliquie – e posso ben dirlo io che vivo in una parrocchia dedicata
alle ossa di 2 uomini di Neanderthal spacciati per santi – non
contano tanto gli oggetti in sè quanto le storie che raccontano.
E qui la storia è
che io ho pedalato per anni insieme alla borraccia di Gimondi.
Addio