- Questo racconto, in origine, era parte di un mio commento sul blog La Dolce Alexia. Leggermente riadattato lo riporto qui. A volte basta un buongiorno per creare scompiglio, che mondo strano! A Milano quasi non si saluta il vicino di pianerottolo. In montagna non è così. Quando mi trovavo in vacanza in Scozia non era così. Ci si saluta comunque, sia tra conoscenti che tra sconosciuti, quando ci si incrocia. In posti spopolati è anche una maniera per tranquillizzarsi a vicenda; ti saluto perché non ho intenzione di farti del male e spero che anche per te sia così. Nelle grandi città questo non è possibile per il numero di persone che vi abitano, troppa gente da salutare. A Milano però c'è un qualcosa in più che l'ha eletta capitale italiana del non saluto. In una delle prime scene del film Miracolo A Milano il protagonista, uscendo ormai adulto dall'orfanotrofio in cui è stato allevato, saluta sorridente la prima persona che incontra e questa reagisce in modo sorpreso e spaventato fino a manifestare vera e propria irritazione.:”Non ci conosciamo e mi saluti? Cosa vuoi? Sei matto? Sei un ladro...”? Io sono milanese, anche se di campagna, questi comportamenti non li ho appresi, li ho respirati da quando sono nato. Milano e la sua campagna è quella parte del mondo che sta attorno a me, quella che conosco meglio, ma certe volte capita che un comportamento quotidiano, ritenuto normale ed educato, venga - come posso dire? - usato in modo tanto pesante da risultare fastidioso. Anni fa mi trovavo in San Babila con un amico, stava cercando un libro ed io lo stavo accompagnando in un giro per librerie.
- Passiamo davanti ad un bar ed il mio amico, molto più tipo da bar di me, io tendo ad evitare i locali pubblici, mi offre un caffè. Ad un caffè non dico mai di no. Ci avviciniamo al banco ed il barista, mentre è al telefono, ci indica che bisogna prima pagare. Alla cassa una ragazza, anche lei al telefono, continuando a parlare, prende i soldi, non capisco come abbia potuto intuire che volessimo due caffè, e batte lo scontrino. Riandiamo al banco, il barista, ancora al telefono, prende lo scontrino e ci serve i caffè. Li beviamo e usciamo senza un grazie né un buongiorno. Appena usciti mi fermo di scatto e dico al mio amico: “ Ma siamo diventati invisibili o qua in centro si comunica solo per telefono e tu gli hai telefonato prima per ordinare i caffè”?. Lui ridacchia. Entriamo in una libreria, giro tra gli scaffali e finalmente troviamo il libro. Via a pagare che si fa tardi. Alla cassa c'è un po' di gente, io ed il mio amico, siamo due pessimi italiani, ci mettiamo in fila chiacchierando tra di noi. Ad un certo momento mi scappa l'occhio sulla cassiera, è una signora bionda tinta – a Milano tutte le bionde sono tinte, specialmente le bionde naturali – e anche lei sta telefonando. Tiene la cornetta tra la testa e la spalla per avere le mani libere e continua a parlare, non mi importa quello che dice, ma noto che non degna di uno sguardo o di una parola la signora che stava pagando davanti a lei. “Accidenti” penso “un cafone posso metterlo in conto di trovarlo, due anche, ma addirittura tre di fila”! “No, non è possibile, non può essere solo cafoneria, deve essere successo qualcosa, oppure...” E' stato in quel momento che ho preso reale coscienza di vivere nella terra del non saluto. Ma così, nemmeno salutarsi quando si ha un rapporto sociale, seppure breve e fugace come può essere il pagamento di un acquisto, era troppo, veramente troppo. Dovevo fare qualcosa. Io, una persona timida, mi metto a fissare la bionda insistentemente e con il viso rilassato e contento come solo un uomo in pace con sé stesso e con il mondo può avere. La fila si assottiglia e lei imperterrita continua fare il suo lavoro di cassiera e a parlare al telefono senza dimostrare a nessuno di quelli che gli passano davanti che li riconosce come persone. Io continuo a fissarla, non le tolgo gli occhi di dosso neanche per un solo momento.
- Arriva il momento in cui tocca a noi. Ora le sono vicino, posso osservarla meglio. No, non è una cassiera o un'impiegata; è vicina ai 50, o li ha superati da poco portandoli molto bene, una bella donna, vestito elegante e serio, un tailleur classico con sotto una camicetta, colori sobri e ben accostati, un discreto numero di gioielli. Non è proprio una cassiera. Sarà la padrona? La direttrice? Poco importa, non sto facendo nulla di male, la sto solo fissando cercando il suo sguardo. Non mi passa neanche per la testa di farle qualcosa di male, del tipo mi chiami il direttore, esigo rispetto o altre chiassate simili. Non mi comporto mai così. Il mio amico paga, nessun saluto. Allora io mentre le sto passando davanti per avviarmi verso l'uscita, sempre guardandola, do un colpetto al banco con un dito per attirare l'attenzione e quando i nostri sguardi s'incrociano, col più sincero sorriso che posso fare e con un tono di voce chiaro, abbastanza alto ma non urlato, le dico: “Buongiorno”. Il mio buongiorno la coglie mentre sta dicendo una parola al telefono che tenta di troncare per rispondere anche lei buongiorno, mentre mi guarda un po' stranita, ma il passaggio tra la parola che già stava dicendo ed il buongiorno le provoca un leggero colpo di tosse che le fa scivolare la cornetta del telefono, tenta di fermare la caduta con la mano con cui teneva i soldi che cadono disordinatamente in parte nel cassetto e in parte fuori. Mentre si china a raccoglierli, neppure per un momento i nostri sguardi si erano separati, io, sempre sorridente, ma non irriverente o con una smorfia di divertimento - se il posto dove era seduta fosse stato accessibile l'avrei aiutata a raccogliere quello che le era caduto - esco dal negozio. Chissà che avrà pensato? Si sarà accorta che aveva davanti una persona che aveva voglia di essere riconosciuta come tale o mi avrà ricoperto d'insulti, anche solo pensati? Non lo saprò mai. A me basta il ricordo di quel viso sorpreso. La sorpresa di un semplice buongiorno. 03/08/2009
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